sabato 25 aprile 2009

QUATTRO VOLTE QUATTRO



Il ragazzo non voleva percorrere altre strade se non questa. Era difficile, sacrificata, ma era determinato a raggiungere la sua meta. Nato in mezzo alle stradine del ghetto cantate da Umberto Saba (“Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore, come un amore, con gelosia…”). Nel sangue, nelle vene, nelle gambe, nei piedi il pallone. Il campo di calcio vicino a casa sua era gestito da Don Zeno. Parroco ruvido, dall’urlo facile, ma tra i primi supporter della Triestina. Sempre in prima fila nelle sedie di legno e poi di plastica blu del Littorio. Da quel campetto di periferia è partito quel ragazzino vigoroso, dalle spalle larghe, i movimenti regolari e fluidi, la corsa ritmata e composta.

La prima convocazione il 4 aprile 1938. L’incontro con l’allenatore era per le dieci di mattina, davanti al cancello di ferro del Littorio. Era emozionato. Si presentò già vestito: calzettoni bianchi spessi, arrotolati fino sopra al ginocchio, e maglietta bianca di cotone, quella della salute, con un segno giallo vicino all’incavo dell’ascella, segno di una stiratura troppo insistita. Non aveva parastinchi, né scarpette. Entrò nello spogliatoio accompagnato da Nereo, il guardarobiere, che aprì un armadietto, prese due lunghe lingue rigide e bianche e un paio di scarpette con una quantità impressionante di terriccio sulla tomaia. “Toh, usa questi. Quando hai finito mi rimetti tutto al posto, in questo armadietto qui. C’è scritto Cuffersin. Va ben?”. Fuori dalla porta lo aspettava un immenso prato verde abbracciato sui tre lati da spalti e tribune. E Eugenio Konrad. “Tre palleggi, e poi corsa con gli altri” gli disse, lanciandogli un pesante pallone di cuoio un po’ slabbrato. La domenica successiva, il 10 aprile, si ritrova seduto sulla panca di legno sul lato del campo destinato ai padroni di casa. Triestina-Roma 1-1.

Poi l’occasione. La telefonata arriva alla sede della squadra il 4 febbraio 1942. Pino stava facendo, con i compagni il trentesimo giro del campo. “Giuseppe! Vieni qui”. La voce stentorea e un po’ rauca di Konrad sovrastò per un momento la litania del Sergio, allenatore in seconda, che contava i giri dei ragazzi e tra un numero e l’altro mormorava “Giovinezza, giovinezza,
primavera di bellezza, della vita nell’asprezza, il tuo canto squilla e va..”. Madido di sudore e sporco di terra Giuseppe entrò nella piccola e buia stamberghetta che l’allenatore aveva riservato a sé come pensatoio. “Novità, ragazzo. Grandi novità”. Dopo qualche minuto Pino uscì con la testa in palla, senza avere ancora realizzato quanto sarebbe cambiata la sua vita. La mamma, quando lo seppe, si coprì la faccia con le mani e scoppiò in un pianto sommesso ma continuo. Pino era l’ultimo figlio, ci era particolarmente legata. “Quando parti?”. “Il mese prossimo. Il biglietto me lo fa la società. Parto con un treno notturno, con le cuccette”.

Così fu. Il 4 giugno 1942 Antonio salì sulla littorina Aln56 diretta a Torino Porta Susa. Il cielo di Trieste, sempre limpido, pulito dal vento, lo salutò con un piccolo refolo che gli fece un rapido ma affettuoso buffetto sulla guancia. I suoi genitori e tre dei quattro fratelli salutavano composti dalla banchina. Mancava solo la sorella Maria, suora di clausura: “Ti mando una preghiera speciale”, gli aveva detto. Il treno sui mosse in perfetto orario, alle 20 in punto. Giuseppe lesse l’ora nel grande orologio della stazione, visibile dal finestrino del suo treno, in partenza dal primo binario. La notte passò tranquilla. Coricato nel buio del suo scompartimento, il numero 8, posto 4, cullato dal dondolamento del vagone e rilassato dal sottile russare del corpulento commesso viaggiatore di un’azienda di caffè che dormiva proprio sotto di lui, ricompose alcuni tasselli fino a quel momento rimasti scollegati: non potè fare a meno di notare che gli avvenimenti più importanti e significativi della sua vita cadevano sempre il quattro. Questo numero stava diventando una costante, e ritornava, puntuale, nelle occasioni di maggior cambiamento. “Le svolte della mia vita sono legate al numero quattro. Tutti i momenti più importanti li ho vissuti il giorno quattro. Che coincidenze!”. Non era tipo da superstizione, ma decise che d’ora in poi sarebbe stato il suo numero fortunato.

Il treno entrò in stazione puntuale, alle prime luci dell’alba. Erano le cinque di mattina. Lo accolsero due dirigenti. “Si troverà bene Giuseppe, qui è una grande famiglia”. Lo accompagnarono ad una pensioncina sul Lungo Dora, gestita dalla Gianna Borgesio, settant’anni ben portati, di cui almeno venti passati ad accudire ai piccoli e grandi campioni che via via calcavano il prato del Filadelfia. Appena posate le valige sul pavimento di linoleum verde, Pino si sistemò sulla pericolante sediola in legno chiaro dello studiolo, estrasse qualche foglio bianco dal cassetto, e scrisse alla madre: “Cara Mamma, sono felice di comunicarti e di comunicare a Voi tutti che vostro figliolo e fratello ha fatto davvero un’ottima scelta ad accettare l’offerta giuntami un mese fa: qui a Torino l’ambiente mi è sembrato subito molto cordiale, e sono stati tutti molto buoni con me. Mi hanno dato una sistemazione provvisoria in una pensione vicino al fiume Dora per farmi prendere un po’ di confidenza con la città e le sue strade. Non datevi pena per me, che qui godo di buona salute ed sono voluto molto bene. Vi darò altre mie notizie al più presto. Un caro saluto a tutti Voi dal Vostro Pino che Vi pensa sempre. PS: se non è troppo disturbo ogni tanto mandatemi quattro gubane, che sapete che sono molto goloso di dolci. P.P.S.: Vi chiederete perché quattro ebbene ve lo dico subito perché ho scoperto che è il mio numero fortunato. Ancora carissimi saluti, Vostro affezionatissimo Pino”.



Questo racconto, di pura fantasia, è stato ispirato ed è dedicato alla figura di Giuseppe Grezar, mediano del Grande Torino, morto nella tragedia di Superga il 4 maggio 1949.

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