sabato 25 aprile 2009

QUATTRO VOLTE QUATTRO



Il ragazzo non voleva percorrere altre strade se non questa. Era difficile, sacrificata, ma era determinato a raggiungere la sua meta. Nato in mezzo alle stradine del ghetto cantate da Umberto Saba (“Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore, come un amore, con gelosia…”). Nel sangue, nelle vene, nelle gambe, nei piedi il pallone. Il campo di calcio vicino a casa sua era gestito da Don Zeno. Parroco ruvido, dall’urlo facile, ma tra i primi supporter della Triestina. Sempre in prima fila nelle sedie di legno e poi di plastica blu del Littorio. Da quel campetto di periferia è partito quel ragazzino vigoroso, dalle spalle larghe, i movimenti regolari e fluidi, la corsa ritmata e composta.

La prima convocazione il 4 aprile 1938. L’incontro con l’allenatore era per le dieci di mattina, davanti al cancello di ferro del Littorio. Era emozionato. Si presentò già vestito: calzettoni bianchi spessi, arrotolati fino sopra al ginocchio, e maglietta bianca di cotone, quella della salute, con un segno giallo vicino all’incavo dell’ascella, segno di una stiratura troppo insistita. Non aveva parastinchi, né scarpette. Entrò nello spogliatoio accompagnato da Nereo, il guardarobiere, che aprì un armadietto, prese due lunghe lingue rigide e bianche e un paio di scarpette con una quantità impressionante di terriccio sulla tomaia. “Toh, usa questi. Quando hai finito mi rimetti tutto al posto, in questo armadietto qui. C’è scritto Cuffersin. Va ben?”. Fuori dalla porta lo aspettava un immenso prato verde abbracciato sui tre lati da spalti e tribune. E Eugenio Konrad. “Tre palleggi, e poi corsa con gli altri” gli disse, lanciandogli un pesante pallone di cuoio un po’ slabbrato. La domenica successiva, il 10 aprile, si ritrova seduto sulla panca di legno sul lato del campo destinato ai padroni di casa. Triestina-Roma 1-1.

Poi l’occasione. La telefonata arriva alla sede della squadra il 4 febbraio 1942. Pino stava facendo, con i compagni il trentesimo giro del campo. “Giuseppe! Vieni qui”. La voce stentorea e un po’ rauca di Konrad sovrastò per un momento la litania del Sergio, allenatore in seconda, che contava i giri dei ragazzi e tra un numero e l’altro mormorava “Giovinezza, giovinezza,
primavera di bellezza, della vita nell’asprezza, il tuo canto squilla e va..”. Madido di sudore e sporco di terra Giuseppe entrò nella piccola e buia stamberghetta che l’allenatore aveva riservato a sé come pensatoio. “Novità, ragazzo. Grandi novità”. Dopo qualche minuto Pino uscì con la testa in palla, senza avere ancora realizzato quanto sarebbe cambiata la sua vita. La mamma, quando lo seppe, si coprì la faccia con le mani e scoppiò in un pianto sommesso ma continuo. Pino era l’ultimo figlio, ci era particolarmente legata. “Quando parti?”. “Il mese prossimo. Il biglietto me lo fa la società. Parto con un treno notturno, con le cuccette”.

Così fu. Il 4 giugno 1942 Antonio salì sulla littorina Aln56 diretta a Torino Porta Susa. Il cielo di Trieste, sempre limpido, pulito dal vento, lo salutò con un piccolo refolo che gli fece un rapido ma affettuoso buffetto sulla guancia. I suoi genitori e tre dei quattro fratelli salutavano composti dalla banchina. Mancava solo la sorella Maria, suora di clausura: “Ti mando una preghiera speciale”, gli aveva detto. Il treno sui mosse in perfetto orario, alle 20 in punto. Giuseppe lesse l’ora nel grande orologio della stazione, visibile dal finestrino del suo treno, in partenza dal primo binario. La notte passò tranquilla. Coricato nel buio del suo scompartimento, il numero 8, posto 4, cullato dal dondolamento del vagone e rilassato dal sottile russare del corpulento commesso viaggiatore di un’azienda di caffè che dormiva proprio sotto di lui, ricompose alcuni tasselli fino a quel momento rimasti scollegati: non potè fare a meno di notare che gli avvenimenti più importanti e significativi della sua vita cadevano sempre il quattro. Questo numero stava diventando una costante, e ritornava, puntuale, nelle occasioni di maggior cambiamento. “Le svolte della mia vita sono legate al numero quattro. Tutti i momenti più importanti li ho vissuti il giorno quattro. Che coincidenze!”. Non era tipo da superstizione, ma decise che d’ora in poi sarebbe stato il suo numero fortunato.

Il treno entrò in stazione puntuale, alle prime luci dell’alba. Erano le cinque di mattina. Lo accolsero due dirigenti. “Si troverà bene Giuseppe, qui è una grande famiglia”. Lo accompagnarono ad una pensioncina sul Lungo Dora, gestita dalla Gianna Borgesio, settant’anni ben portati, di cui almeno venti passati ad accudire ai piccoli e grandi campioni che via via calcavano il prato del Filadelfia. Appena posate le valige sul pavimento di linoleum verde, Pino si sistemò sulla pericolante sediola in legno chiaro dello studiolo, estrasse qualche foglio bianco dal cassetto, e scrisse alla madre: “Cara Mamma, sono felice di comunicarti e di comunicare a Voi tutti che vostro figliolo e fratello ha fatto davvero un’ottima scelta ad accettare l’offerta giuntami un mese fa: qui a Torino l’ambiente mi è sembrato subito molto cordiale, e sono stati tutti molto buoni con me. Mi hanno dato una sistemazione provvisoria in una pensione vicino al fiume Dora per farmi prendere un po’ di confidenza con la città e le sue strade. Non datevi pena per me, che qui godo di buona salute ed sono voluto molto bene. Vi darò altre mie notizie al più presto. Un caro saluto a tutti Voi dal Vostro Pino che Vi pensa sempre. PS: se non è troppo disturbo ogni tanto mandatemi quattro gubane, che sapete che sono molto goloso di dolci. P.P.S.: Vi chiederete perché quattro ebbene ve lo dico subito perché ho scoperto che è il mio numero fortunato. Ancora carissimi saluti, Vostro affezionatissimo Pino”.



Questo racconto, di pura fantasia, è stato ispirato ed è dedicato alla figura di Giuseppe Grezar, mediano del Grande Torino, morto nella tragedia di Superga il 4 maggio 1949.

domenica 23 novembre 2008

ROMAGNA FELIX


Marina di Ravenna ti accoglie in maniera distratta, senza troppi fronzoli, con un aplomb raro per le nuove località rampanti della costa adriatica.

Il divertimentificio litoraneo ravennate è nato, da poco, figlio quasi non riconosciuto dei nuovi locali della più rinomata Milano Marittima, località in a pochi km più a sud. Un indotto insperato, subito raccolto dal pragmatismo di questi romagnoli della provincia più intellettuale e distaccata, Ravenna. Città di incontro con l’Oriente bizantino, da cui ha assimilato il gusto del bello, l’attenzione per il dettaglio prezioso e la cura dell’immagine, riuscendo miracolosamente a non contaminarsi con i verminai burocratici e l’indolenza tipici della gente del levante.

Il visitatore o turista è ancora una categoria sociologica poco assimilata, verso il quale c’è, alla peggio, titubanza o, alla meglio, la tentazione di divertirsi tutti assieme, come farebbe un oste di paese tirando giù la serranda del suo locale per bere un bicchiere con gli amici/clienti di sempre. Dunque volontà di costruire, migliorarsi, crescere economicamente, mai incupito però da eccessi o derive milanesistiche simil calviniste.

Dedizione, precisione e solare cordialità fanno di questo scampolo di Romagna un luogo protetto dalle catene di montaggio del divertimento estivo, vedi Rimini o Riccione, che solo di recente sono state recuperate a nuova attenzione e cultura del turista: non più medio basso impiegato/operaio del nord a cui propinare offerte tutto compreso in squallidi hotel nominalmente e tre stelle, ma che di fatto ne avrebbero meritato a malapena un satellite.

O, peggio, minus habens intruppato in bande di scalmanati amanti degli after hour su cui riversare tutto il peggio della cultura chimica e tecno maranza del momento. No. Oggi tutti gli operatori sono consapevoli dell’avanzare lento ma inesorabile di una figura nuova: il Turista Intelligente e Politicamente Corretto.

Egli appare più consapevole dei sui doveri, ma anche dei suoi diritti, in particolare a quelli attinenti al soddisfacimento degli appetiti cultural-folcloristici. Ha scoperto gli entroterra, che ormai non offrono più solo le classiche mangiate domenicali, ma diventano santuari del boccone di tranquillità finisettimanale e della più consistente torta della vacanza estiva.

La Romagna ha capito questo già da tempo, premurandosi di avvisare i transitanti che Rimini e Riccione non offrono solo litorali e spiagge a perdita d’occhio ove distendersi a rimirare il verdognolo Adriatico, ma anche campagne riposanti e ricche di storia e cultura. Sì perché la cultura romagnola è unica nel suo genere. Culla della musica nazional popolare (l’anthem Romagna Mia, ormai riconosciuto al pari di O’ sole mio come uno dei pilastri dello strapaese esportato a colpi di stereotipi in ogni latitudine) ma anche patria di Secondo Casadei, uno dei pionieri del serio recupero delle tradizioni musicali territoriali, i cui sforzi sono stati in parte vanificati dalle derive kitch dei suoi discendenti.

Santuario della buona cucina, un po’ carica ma genuina, sana e soprattutto soddisfacente per i sensi. Un po’ come (e qui il paragone sarà scontato ma è d’obbligo) rimirare i magnificenti culi delle donne di Fellini.

giovedì 25 settembre 2008

IDOSER, IL DILEMMA


Idoser è il nome di un programma scaricabile dal sito ufficiale del produttore, www.idoser.com, che promette a chi lo utilizza effetti pari o superiori a sostanze allucinogene come alcol e droghe, mediante l’ascolto continuativo e ripetuto di frequenze ultrasoniche.

Come si legge nel blog di Paolo Attivissimo (www.attivissimo.net), giornalista informatico e noto cacciatore di bufale, «In realtà si tratta di binaural beat: due suoni, a frequenze udibili e riproducibili dalle cuffie normali, e leggermente differenti l'uno dall'altro come frequenza: per esempio, uno è a 300 Hz e l'altro è a 307.

Ascoltati in cuffia, in modo che uno solo dei due suoni raggiunga ciascun orecchio, producono un terzo suono per battimento». Ogni “dose” ha nomi evocativi (Peyote, Lsd, Alcohol, Cocaine) e promette, come si legge nel sito, di «aiutare il cervello a raggiungere uno stato di euforia, sedazione e allucinazione». Dal sito è inoltre possibile scaricare una demo con 2 dosi "omaggio" del prodotto, e leggere le testimonianze di chi si è già sparato nell’orecchio la prodigiosa musichetta.

E da ciò si evince che non a tutti è andata molto bene: per esempio Levi, che ha provato Hand of God e Gates of Hades, segnala che «dopo la prima assunzione avevo la sensazione di continuare a cadere, e di non fermarmi più. Con la seconda ho cominciato a pensare che la gente attorno a me dovesse essere giustiziata: caddi così in una profonda depressione, mi sentii realmente morire e mi misi a piangere disperato». Alla fine di questa non felice esperienza Levi si sente di concludere così il suo racconto: “Se vi sentite abbastanza sicuri di voi stessi, provatela. Vi cambierà la mente»

Pubblicato su "L'Appunto" del 30 agosto 2008

martedì 5 agosto 2008

ROMAGNANO E GATTINARA: IL PONTE DELLA DISCORDIA

Romagnano e Gattinara: due paesi confinanti, separati solo da una lingua d’acqua chiamata Sesia. Due realtà vicine epperò distanti, segnate negli anni dai campanilismi tipici della mentalità ancora comunale del Bel Paese. La proprietà delle terre e l’uso delle acque del fiume Sesia tra i principali fattori scatenanti di una rivalità lunga secoli, temperatasi solo negli ultimi anni sulla scia di una modifica generale della mentalità, degli usi e dei costumi. «Le rivalità tra gli abitanti di Romagnano e Gattinara ha un sottofondo storico che trova origine molti secoli fa», spiega lo storico romagnanese Carlo Brugo. «In tutto questo lasso di tempo gli abitanti dei due paesi hanno trovato il modo di odiarsi a vicenda, di disprezzarsi, di danneggiarsi le colture, di mettere in atto ritorsioni e ripicche e, in qualche caso, anche di suonarsele di santa ragione.

Le rivalità affondano le proprie motivazioni in ragioni di natura storica, politica e soprattutto demaniale e patrimoniale. E’ notorio quanto entrambe le fazioni siano attaccate alle loro proprietà: i litigi principali infatti avvennero proprio per le terre e soprattutto per l’uso delle acque del Sesia». L’ignaro fiume fu oggetto, nei secoli, di liti e controversie che hanno un’origine lontanissima, risalente all’Alto Medioevo: «Nel 1194 i romagnanesi contestarono ai gattinaresi la concessione di estrarre una roggia dal letto del fiume per fare fronte alle necessità agricole.

Dovettero passare più di trent’anni, e arrivare al 1223 con un altro accordo tra Novara e Vercelli, prima che il permesso diventasse operativo». Anche il canale Mora, edificato nel 1481 da Giangaleazzo Sforza, fu oggetto di disputa: «Nel 1492 Romagnano crea il casus belli poiché vorrebbe estrarre l’acqua per i suoi mulini dalla chiusa di Gattinara. La municipalità del borgo, per porre fine ad ogni pretesa o angheria, offre a Romagnano una parte di territorio sulla sponda destra e delle terre a nord di San Lorenzo, il Pian di Cordova, purchè si lasci prelevare la roggia comunale dove avessero ritenuto più opportuno».

Nella seconda metà del diciassettesimo secolo viene realizzata un’opera di grande impatto geopolitico per tutta la zona: lo spostamento del letto del fiume Sesia verso Gattinara, posizionandolo dove si trova a scorrere tutt’oggi: «L’occasione fu ghiotta: i romagnanesi presero possesso di vasti appezzamenti di terra sulla sponda destra del fiume trascurati dai proprietari. Ciò diede il la ad una serie di ritorsioni e di vandalismi continui: le scorrerie erano all’ordine del giorno e campi, vigne e prati erano devastati di continuo».
Per giungere a tempi più recenti, la costruzione del ponte sul fiume fu l’occasione per il riaccendersi e il consolidarsi delle vecchie diatribe e rivalità: «Nei primi anni dell’Ottocento venne costruita la strada che congiungeva Torino alla Svizzera, transitando da Gattinara e Romagnano. A quei tempi il passaggio sul fiume era affidato ad un precario traghetto, gestito in appalto dalla municipalità di Romagnano.

Nel 1850 si cominciò a parlare di un ponte in muratura che congiungesse le due rive. Anche il questa occasione ci fu molto da discutere, poiché Gattinara offrì 150 mila lire per far costruire il ponte in località bassa, dove sorge oggi il ponte ferroviario. Romagnano voleva il ponte in una località diversa, in un luogo ove deteneva la proprietà delle due sponde. Grazie agli appoggi che Romagnano godeva a Novara, venne accolta quest’ultima soluzione. Il ponte fu inaugurato il 19 settembre 1860 da Camillo Cavour, e i romagnanesi soddisfatti vollero che a benedirlo fosse il parroco di Romagnano, e che Cavour fosse loro ospite, a tutto dispetto di quelli di Gattinara». Un atteggiamento quello dei romagnanesi, che il concittadino Carlo Brugo non esita a definire «Prepotente» e che ben presto fece scaturire nei gattinaresi una controreazione: «Oltre alle vie di fatto, i gattinaresi cominciarono a definire i rivali in modo dispregiativo, chiamandoli ad esempio i “Tignun” (i tignosi), i “Sciablun” (gli scancati, con le gambe arcuate), i “Tu-lu-gno” (eccolo là) e via di questo passo». Anche Arturo Gibellino, memoria storica di Gattinara, ricorda aneddoti gustosi riferiti alla sua infanzia: «Da bambino sentivo spesso dire dagli adulti: “A’ jén pasà coi béi temp, quand chi ‘n davu su Séisa a fe la guera a priunaj contra ai Rumagnoj!”» (Sono passati quei bei tempi quando andavamo al Sesia a far la guerra a sassate contro quelli di Romagnano).

Lo stesso Gibellino, nel volume “Dialét e kustummi ad Gatinéra”, riferisce quanto segue: «Con quell’aria da bravacci che dovevano avere i nostri giovani di quei tempi, si andava a sedere al caffè nella piazza di Romagnano e ordinavano da bere, offesa che il più miserabile dei romagnanesi non avrebbe sicuramente sopportato. Gli sfidanti […] si vedevano assalire da uomini e donne armati di tridenti e bastoni, roteavano sedie e tavolini, ingaggiavano lotte furibonde e spesso si ritiravano subendo la peggio; ma era pur bello permettersi un lusso che quelli di Romagnano non si sarebbero neppure sognato». Ma a farne le spese , in tempi anche più recenti, sono state le varie occasioni popolari e caratteristiche dei due paesi, e cioè il Venerdì Santo di Romagnano e il Carnevale di Gattinara. «I romagnanesi andavano con aria ironica e beffarda a schernire e denigrare il Carnevale – racconta Carlo Brugo. A loro volta i gattinaresi venivano a Romagnano per le rappresentazioni del Venerdì Santo, da loro stessi definito “al carlavée da Rumagnan”, al solo scopo di parlarne male in patria».

Pubblicato su "L'Appunto" del 2 agosto 2008

lunedì 4 agosto 2008

I Baci che non ti ho mai dato.

Sapevo che il tuo sguardo un po' sfuggente, attento ai movimenti imprevisti del pallone e alle traiettorie sghembe dei lanci sotto porta, avrebbe potuto non incrociare mai il mio. Intabarrata nel paltò marrone, recupero di una mantella di una mia sorella più grande, come molte domeniche facevo la coda alla biglietteria del Filadelfia assieme a mio padre, con la sciarpa granata d'ordinanza e un cartoccio di caldarroste in una mano. Fu lì che ti notai per la prima volta. Era il 31 ottobre. Tu eri piccolo, magrolino ma definito, ti muovevi attento e nervoso tra i pali. E poi, ogni tanto, quello scatto di reni. Qualcuno lo avrebbe qualificato ridicolo, io lo trovai subito maschio e sensuale. Brividi sulla pelle, i primi mai provati per un uomo. Che emozione. Cercai di incontrarti. Chiesi ad amici e amiche quali posti frequentassi, tu, ligure amante del sole e del mare, nella nostra grigia ma ospitale Torino. Sapevo che amavi divertirti, che eri un burlone, e che avevi abitato in una pensione di via Nizza, con altri compagni di squadra. Ho cercato in tutti i modi di sapere qualcosa di più su di te. Ho scoperto che eri di Vado Ligure, che avevi otto fratelli e tre sorelle, e che i tuoi genitori avevano uno stabilimento balneare. Una famiglia di sportivi. Ma tu, tu avevi qualcosa, qualcosa di indefinito che si elevava sopra la medietà dei tanti ragazzi amanti del pallone. Gli occhi, soprattutto. Uno sguardo magnetico, penetrante. Di chi ha scalato la montagna a mani nude, e ha imparato a trovare dentro di sé la forza per crescere e maturare. Un uomo tutto d'un pezzo. Un sogno. Il mio sogno, destinato però a non avverarsi mai. Perché per me le notti torinesi erano off limits, "almeno fino a quando non compirai ventun'anni", diceva mia madre. Massì, figuriamoci, quanto dovrò aspettare ancora? Tu sei già grande, hai già venticinque anni. E nel frattempo potresti conoscere qualche altra ragazza, innamorarti, oppure cambiare squadra, tornare in Liguria..che ne so. Disperata come solo un'adolescente delusa e impotente può essere, trovai il sollievo al mio tormento. Una tua foto, bellissima, trovata su una copia di Tutto Sport, arraffato in edicola per sbaglio da mio padre assieme alla Gazzetta del Popolo. Un'immagine netta, epica e immaginifica. Ci sei tu che guardi attraverso le maglie della rete della porta, ti ci aggrappi, come a delimitare il tuo territorio, con le mani infilate nei guantoni. E lanci fulmini dagli occhi, come Plutone dal suo antro. Che immagine! Divenne il mio santino, la mia arca della felicità. Tutte le notti, prima di dormire, di nascosto depositavo un bacio - timido - sulle tue labbra disegnate nella carta chimica del giornale. Un tocco fuggente, delicato, per non bagnare la carta e distruggere così il mio evanescente sogno di cellulosa. Così tutte le notti, e così anche durante il giorno, quando sentivo balzarmi nelle viscere la voglia di essere abbracciata e di sentire il tuo fiato caldo vicino a me. Dio quanto eri bello. La tua effigie illuminava le mie giornate. Continuai così per un bel po' di mesi, fino a quando decisi di tentare il tutto per tutto. Un blitz, domenica 8 maggio, per Torino - Fiorentina. Convinsi mio padre a portarmi alla partita: fece un po' di resistenza, ma alla fine acconsentì. La mia decisione: balzare su di te alla fine dell'incontro. Una placcata in piena regola, un'epifania necessaria ad un amore virtuale e unilaterale. Un agguato che aveva un solo scopo: dichiararti il mio amore e finalmente baciare le tue labbra, quelle vere, salate di sudore e impataccate di saliva asciutta. Senza contare che la foto stava cominciando a macerarsi sotto il mio continuo e indefesso lavoro: era il momento di dare una svolta alla situazione. Questa decisione mi tranquillizzò per un po', tanto che nei giorni successivi decisi di baciarti solo la sera, per rompere la routine in attesa del Grande Evento. Mercoledì pomeriggio stavo riordinando le mie cose in camera e raccontando alla tua foto i dettagli del piano di avvicinamento. Era una pessima giornata. Pioggia, nebbia, buio. Dettagli per me insignificanti, dato che nella mia mente brillava il verde del campo del Filadelfia: domenica sarebbe stata una giornata indimenticabile.

"Mercoledì 4 maggio 1949, ore 17,05. Un boato proveniente dalla Basilica di Superga ha scosso il mondo sportivo. Il trimotore FIAT N. 212 delle Aviolinee Italiane ci ha rubato un sogno, un meraviglioso gruppo di ragazzi che ha reso il calcio italiano emozionante, vivo, spettacolare. L'aereo che riportava a casa da un'amichevole a Lisbona il Grande Torino, la squadra invincibile, i dieci undicesimi della nostra Nazionale, si è schiantato contro il terrapieno della Basilica di Superga. Nessun superstite tra le lamiere...."


Dedicato a Valerio Bacigalupo, portiere del Grande Torino
Vado Ligure, 12 marzo 1924- Superga, 4 maggio 1949

Pubblicato su www.alessandrorosina.it - Rubrica sTORie

venerdì 29 febbraio 2008

Giornali, giornalisti e lo sguardo sul mondo

Un tempo pensavo che occorresse essere vergini. Nello sguardo, nella mente, e nella volontà. Poi ho capito che non può essere. Ognuno è sempre se stesso, proprio sempre. Non si può abdicare a se stesso e al proprio sentire. E’ per questo che il giornalista non può fare a meno del proprio sarcofago di idee, del proprio armamentario ideologico. L’importante è che lasci gli interessi fuori dalla porta. Marxianamente, che divida lo spirito dal profitto. Non mi impongo di non avere idee. Anzi, a questo punto le concimo, le irroro, do loro fiato. E, montanellianamente certifico la mia appartenenza, non la nascondo. E, con Kant, dico che la realtà non esiste. Esiste la percezione che ne abbiamo. E tanto la viviamo. Allora lasciamo scorrere i principi, le idee che ci conducono e che danno fiato al nostro essere, e diamo così forma alle cose, ai fatti, e alle sensazioni che esse ci producono. Siamo spettatori e tanto attori, mai dimenticarlo. Mai abdicare al ruolo attivo del nostro respiro e del nostro vivere.

venerdì 22 febbraio 2008

Il luogo dove i libri non muoiono

E' a Frassineto Po (AL), in un'ex sala da ballo di un km e mezzo di metri lineari, la più grande rivendita italiana di libri pubblicati dalle piccole e medie case editrici italiane (una trentina per ora, ma altre venti si dovrebbero aggiungere all'appello). Libri altrimenti destinati al macero, e che sugli scaffali sono proposti con uno sconto sul prezzo di copertina che va dal 30 al 75%. Ma non solo vecchie edizioni, magari introvabili altrove: anche novità, per le quali c'è una sezione apposita. All'orizzonte anche gemellaggi importanti, come la Fiera del Libro della vicina Torino. Nella speranza di non farsi fagocitare dai soliti grandi nomi.
Booklet, Piazza Vittorio Veneto, 4 - Frassineto Po. Orari: solo sabato e domenica, 9-13.30 e 14.30-19.
(Fonte: La Stampa 17 febbraio 2008)